L’insegnamento di Papa Francesco

Chi è Papa Francesco?

Papa Francesco nasce Jorge Mario Bergoglio a Buenos Aires il 17 dicembre 1936. Dal 13 marzo 2013 è il 266º vescovo di Roma e papa della Chiesa cattolica. Di nazionalità argentina , appartenente ai chierici regolari della Compagnia di Gesù, detti comunemente gesuiti. E’ il primo pontefice di questo ordine religioso, nonché il primo proveniente dal continente americano .
Durante il suo impegno come vescovo ha scelto uno stile di grande semplicità, spostandosi con i mezzi pubblici e rinunciando a vivere nella sede dell’Episcopato, a favore di un comune appartamento dove si cucinava da solo i pasti. Una semplicità di vita che ha caratterizzato anche questi primi mesi di pontificato scegliendo di vivere nel piccolo convento di Santa Marta anziché nelle stanze alloggio tradizionale dei pontefici, superando le formalità, mettendosi in contatto direttamente con la gente.

Il motto della stemma

Il motto che compare nello stemma adottato dopo la sua ordinazione a vescovo è Miserando atque eligendo, Lui stesso ne spiega il significato a Padre Spadaro nella intervista rilasciata a Civiltà cattolica . Alla domanda del giornalista “Chi è papa Bergoglio”, il Papa così risponde:
«Sì, posso forse dire che sono un po’ furbo, so muovermi, ma è vero che sono anche un po’ ingenuo. Sì, ma la sintesi migliore, quella che mi viene più da dentro e che sento più vera, è proprio questa: “sono un peccatore al quale il Signore ha guardato”». E ripete: «io sono uno che è guardato dal Signore. Il mio motto Miserando atque eligendo l’ho sentito sempre come molto vero per me».

Il motto di Papa Francesco è tratto dalle Omelie di san Beda il Venerabile, il quale, commentando l’episodio evangelico della vocazione di san Matteo, scrive: «Vide Gesù un pubblicano e, siccome lo guardò con sentimento di amore e lo scelse, gli disse: Seguimi».

Il Papa aggiunge: «il gerundio latino miserando mi sembra intraducibile sia in italiano sia in spagnolo. A me piace tradurlo con un altro gerundio che non esiste: misericordiando».
“[…] venendo a Roma ho sempre abitato in via della Scrofa. Da lì visitavo spesso la chiesa di San Luigi dei Francesi, e lì andavo a contemplare il quadro della vocazione di san Matteo di Caravaggio […] Quel dito di Gesù così… verso Matteo. Così sono io. Così mi sento. Come Matteo». E qui il Papa si fa deciso, come se avesse colto l’immagine di sé che andava cercando: «È il gesto di Matteo che mi colpisce: afferra i suoi soldi, come a dire: “no, non me! No, questi soldi sono miei!”. Ecco, questo sono io: “un peccatore al quale il Signore ha rivolto i suoi occhi”. E questo è quel che ho detto quando mi hanno chiesto se accettavo la mia elezione a Pontefice». Quindi sussurra: «Peccator sum, sed super misericordia et infinita patientia Domini nostri Jesu Christi confisus et in spiritu penitentiae accepto».”

Perché il nome Francesco?

Bergoglio è stato il primo pontefice ad assumere il nome di Francesco, scegliendo per la prima volta dopo undici secoli di adottare un nome mai utilizzato da un predecessore.
Il 16 marzo ha spiegato, in occasione del suo incontro con i giornalisti nell’Aula Paolo VI, le ragioni della scelta del suo nome pontificale:
« Nell’elezione, io avevo accanto a me l’arcivescovo emerito di San Paolo e anche prefetto emerito della Congregazione per il Clero, il cardinale Cláudio Hummes. Quando la cosa diveniva un po’ pericolosa, lui mi confortava. E quando i voti sono saliti a due terzi, viene l’applauso consueto, perché è stato eletto il Papa. E lui mi abbracciò, mi baciò e mi disse: “Non dimenticarti dei poveri!”. E quella parola è entrata qui: i poveri, i poveri. Poi, subito, in relazione ai poveri ho pensato a Francesco d’Assisi. Poi, ho pensato alle guerre, mentre lo scrutinio proseguiva, fino a tutti i voti. E Francesco è l’uomo della pace. E così, è venuto il nome, nel mio cuore: Francesco d’Assisi. È per me l’uomo della povertà, l’uomo della pace, l’uomo che ama e custodisce il creato; in questo momento anche noi abbiamo con il creato una relazione non tanto buona, no? È l’uomo che ci dà questo spirito di pace, l’uomo povero… Ah, come vorrei una Chiesa povera e per i poveri ».
Il 17 marzo, durante il suo primo Angelus, ha inoltre precisato che, scegliendo il nome del patrono d’Italia, “rafforza” il suo “legame spirituale” con l’Italia.

I fondamenti culturali e teologici di Papa Francesco

Prima di entrare nel merito dei fondamenti della cultura e della teologia di Papa Francesco chiediamoci in quale orizzonte questi si inseriscono. E a scoprire questo ci aiuta lo stesso Papa.

Papa Francesco è un mistico?

“Una religione senza mistici è una filosofia”, afferma Bergoglio nella intervista al direttore di Repubblica e poi prosegue: “Adoro i mistici; anche Francesco per molti aspetti della sua vita lo fu ma io non credo d’avere quella vocazione e poi bisogna intendersi sul significato profondo di quella parola. Il mistico riesce a spogliarsi del fare, dei fatti, degli obiettivi e perfino della pastoralità missionaria e s’innalza fino a raggiungere la comunione con le Beatitudini. Brevi momenti che però riempiono l’intera vita “.
A Lei è mai capitato?, incalza Scalfari. «Raramente. Per esempio quando il Conclave mi elesse Papa. Prima dell’accettazione chiesi di potermi ritirare per qualche minuto nella stanza accanto a quella con il balcone sulla piazza. La mia testa era completamente vuota e una grande ansia mi aveva invaso. Per farla passare e rilassarmi chiusi gli occhi e scomparve ogni pensiero, anche quello di rifiutarmi ad accettare la carica come del resto la procedura liturgica consente. Chiusi gli occhi e non ebbi più alcuna ansia o emotività. Ad un certo punto una grande luce mi invase, durò un attimo ma a me sembrò lunghissimo. Poi la luce si dissipò io m’alzai di scatto e mi diressi nella stanza dove mi attendevano i cardinali e il tavolo su cui era l’atto di accettazione. Lo firmai, il cardinal Camerlengo lo controfirmò e poi sul balcone ci fu l’“Habemus Papam”».
Nella intervista a Civiltà Cattolica sembra quasi ad indicare una sorta di contrapposizione fra misticismo ed ascetismo . «Ignazio è un mistico, non un asceta. Mi arrabbio molto quando sento dire che gli Esercizi spirituali sono ignaziani solamente perché sono fatti in silenzio. In realtà gli Esercizi possono essere perfettamente ignaziani anche nella vita corrente e senza il silenzio. Quella che sottolinea l’ascetismo, il silenzio e la penitenza è una corrente deformata che si è pure diffusa nella Compagnia, specialmente in ambito spagnolo. Io sono vicino invece alla corrente mistica, (…)».
Ignazio e Francesco, i due grandi riferimenti di papa Bergoglio. Il primo è il maestro della sua ragione, il secondo del cuore.
Ha scritto Vittorio Messori sul Corriere della Sera del 12 settembre scorso a proposito della già citata intervista a Civiltà cattolica: “In effetti, leggendo, si comprende come la strategia del Papa che ha voluto chiamarsi Francesco non sia affatto caratteriale ma sia in realtà nella tradizione migliore dei figli non del Poverello, bensì d’Ignazio. Il carisma dei discepoli del guerriero basco fu il comprendere che il mondo va salvato così com’è, ci piaccia o no; che l’utopia cristiana deve sempre confrontarsi con la realtà concreta; che non deve scandalizzare l’amara concretezza di Machiavelli, per il quale gli uomini sono quelli che sono, non quelli che vorremo che fossero. È a quest’uomo, non a uno ideale e inesistente, che va proposta la salvezza portata dal Cristo”.
I fondamenti della spiritualità di Francesco che lo stesso Papa cita nell’intervista a Civiltà Cattolica sono soprattutto tre: il dialogo, il discernimento, la frontiera.

I fondamenti della spiritualità: il dialogo

Il dialogo con tutti a cominciare dalla cultura moderna. Ed è questo il tema in particolare che Francesco affronta nel dialogo con Eugenio Scalfari, il fondatore del quotidiano La Repubblica, che lo stesso Papa giudica “un non credente ma non un anticlericale. Due cose molto diverse”.
È vero, – risponde Scalfari – non sono anticlericale, ma lo divento quando incontro un clericale.
«Capita anche a me, – osserva ironicamente il Papa – quando ho di fronte un clericale divento anticlericale di botto. Il clericalismo non dovrebbe aver niente a che vedere con il cristianesimo. San Paolo che fu il primo a parlare ai Gentili, ai pagani, ai credenti in altre religioni, fu il primo ad insegnarcelo».
L’importanza del dialogo con la cultura moderna appare al Papa ineludibile perché osserva – nella lettera a Repubblica del 10 settembre – che “la fede cristiana, la cui incidenza sulla vita dell’uomo è stata espressa attraverso il simbolo della luce, spesso fu bollata come il buio della superstizione. Così tra la Chiesa da una parte e la cultura moderna dall’altra, si è giunti all’incomunicabilità. Ma è venuto ormai il tempo – e il Vaticano II ne ha aperto la stagione – d’un dialogo senza preconcetti che riapra le porte per un serio e fecondo incontro”.
Sono parole che colpiscono Scalfari che scrive: “Queste parole sono al tempo stesso una rottura e un’apertura; rottura con una tradizione del passato, già effettuata dal Vaticano II voluto da papa Giovanni(…). L’intera lettera di papa Francesco ruota attorno a questa premessa, ma c’è una frase nelle parole del Papa sopra citate che merita a mio avviso una particolare attenzione: “La fede cristiana… è stata espressa attraverso il simbolo della luce”. E Scalfari rilegge l’”incipit” del Vangelo di Giovanni :
“In principio era il Verbo
e il Verbo era presso Dio
ed era Dio il Verbo.
Le cose tutte furono fatte per mezzo di Lui
e senza di lui nulla fu fatto di quanto esiste.
In lui era la vita
e la vita era la luce degli uomini
e la luce risplende tra le tenebre
ma le tenebre non l’hanno ricevuta”.

Qui, in questi tre ultimi versi poetici e profetici come tutto quel quarto Vangelo, osserva il fondatore di Repubblica nasce la visione cristiana del bene e del male: la vita era la luce degli uomini, ma le tenebre non l’hanno ricevuta. Papa Francesco sviluppa questa visione della contrapposizione tra luce e tenebre, tra bene e male, in modo originalissimo. In un punto della sua lettera scrive: “Per chi non crede in Dio la questione: [del bene e del male] sta nell’obbedire alla propria coscienza. Il peccato, anche per chi non ha la fede, c’è quando si va contro la coscienza. Ascoltare ed obbedire ad essa significa infatti decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene e male. E su questa decisione si gioca la bontà o la malvagità del nostro agire”.
Un’apertura verso la cultura moderna e laica di questa ampiezza, una visione così profonda tra la coscienza e la sua autonomia,- afferma Scalfari – non si era mai sentita finora dalla cattedra di San Pietro. Neppure papa Giovanni era arrivato a tanto e neppure le conclusioni del Vaticano II, che avevano auspicato l’inizio del percorso ai pontefici che sarebbero venuti dopo e ai Sinodi che avrebbero convocato. Papa Francesco quel passo l’ha fatto ed io lo sento profondamente echeggiare nella mia coscienza. Ricordo con grande affetto che visione analoga l’ho ascoltata nei miei colloqui con il cardinale Carlo Maria Martini, che non a caso era amico del cardinale Bergoglio. Ma Martini non era un Papa quando diceva queste cose, Bergoglio ora lo è.
Scalfari rimane talmente colpito da queste affermazioni che, quasi un mese dopo, nell’intervista pubblicata su Repubblica dell’1 ottobre, riprende il discorso “ Lei, Santità, aveva scritto nella lettera che mi indirizzò che la coscienza è autonoma e ciascuno deve obbedire alla propria coscienza. Penso che quello sia uno dei passaggi più coraggiosi detti da un Papa”.
«E qui lo ripeto. Ciascuno ha una sua idea del Bene e del Male e deve scegliere di seguire il Bene e combattere il Male come lui li concepisce. Basterebbe questo per migliorare il mondo».
Della cultura moderna in qualche modo fa parte anche il comunismo. Che ne pensa il Papa? Anche verso chi professa questa ideologia va aperto il dialogo?
«Il suo materialismo non ebbe alcuna presa su di me, risponde il Papa nell’intervista a Scalfari. Ma conoscerlo attraverso una persona coraggiosa e onesta mi è stato utile, ho capito alcune cose, un aspetto del sociale, che poi ritrovai nella dottrina sociale della Chiesa». E la teologia della liberazione, che papa Wojtyla ha scomunicato, – incalza Scalfari – era abbastanza presente nell’America Latina. «Sì, molti suoi esponenti erano argentini». Lei pensa che sia stato giusto che il Papa li combattesse? «Certamente davano un seguito politico alla loro teologia, ma molti di loro erano credenti e con un alto concetto di umanità ».
Questo approccio al comunismo è sottolineato dal teologo “eretico” Hans Kung che osserva: “Uno dei punti interessanti dell’intervista è il giudizio sul comunismo. Francesco afferma che non avrebbe mai aderito al materialismo, ma che ciò nonostante, attraverso i docenti che ebbe e conobbe all’università, da quella dottrina imparò moltissimo. Imparò e capì molto sulle questioni sociali di cui parlavano i comunisti. Non è un caso che Francesco abbia sottolineato l’importanza di alcuni temi che sollevava il movimento (che era sia politico che di fede) della Teologia della Liberazione” .
Ma come è possibile un dialogo se si trovano di fronte persone radicate nelle proprie certezze?
“Se una persona dice che ha incontrato Dio con certezza totale e non è sfiorata da un margine di incertezza, allora non va bene – osserva Papa Francesco nell’intervista a Civiltà Cattolica- . Per me questa è una chiave importante. Se uno ha le risposte a tutte le domande, ecco che questa è la prova che Dio non è con lui. Vuol dire che è un falso profeta, che usa la religione per se stesso. Le grandi guide del popolo di Dio, come Mosè, hanno sempre lasciato spazio al dubbio. Si deve lasciare spazio al Signore, non alle nostre certezze; bisogna essere umili. L’incertezza si ha in ogni vero discernimento che è aperto alla conferma della consolazione spirituale (…)Il rischio nel cercare e trovare Dio in tutte le cose è dunque la volontà di esplicitare troppo, di dire con certezza umana e arroganza: “Dio è qui”. Troveremmo solamente un dio a nostra misura. L’atteggiamento corretto è quello agostiniano: cercare Dio per trovarlo, e trovarlo per cercarlo sempre. E spesso si cerca a tentoni, come si legge nella Bibbia. È questa l’esperienza dei grandi Padri della fede, che sono il nostro modello. Bisogna rileggere il capitolo 11 della Lettera agli Ebrei. Abramo è partito senza sapere dove andava, per fede. Tutti i nostri antenati della fede morirono vedendo i beni promessi, ma da lontano… La nostra vita non ci è data come un libretto d’opera in cui c’è tutto scritto, ma è andare, camminare, fare, cercare, vedere… Si deve entrare nell’avventura della ricerca dell’incontro e del lasciarsi cercare e lasciarsi incontrare da Dio».

«Perché Dio sta prima, Dio sta prima sempre, Dio primerea. Dio è un po’ come il fiore del mandorlo della tua Sicilia, Antonio, che fiorisce sempre per primo. Lo leggiamo nei Profeti. Dunque, Dio lo si incontra camminando, nel cammino. E a questo punto qualcuno potrebbe dire che questo è relativismo. È relativismo? Sì, se è inteso male, come una specie di panteismo indistinto. No, se è inteso in senso biblico, per cui Dio è sempre una sorpresa, e dunque non sai mai dove e come lo trovi, non sei tu a fissare i tempi e i luoghi dell’incontro con Lui. Bisogna dunque discernere l’incontro. Per questo il discernimento è fondamentale».

“Chi oggi cerca sempre soluzioni disciplinari, chi tende in maniera esagerata alla “sicurezza” dottrinale, chi cerca ostinatamente di recuperare il passato perduto, ha una visione statica e involutiva. E in questo modo la fede diventa una ideologia tra le tante. Io ho una certezza dogmatica: Dio è nella vita di ogni persona, Dio è nella vita di ciascuno. Anche se la vita di una persona è stata un disastro, se è distrutta dai vizi, dalla droga o da qualunque altra cosa, Dio è nella sua vita. Lo si può e lo si deve cercare in ogni vita umana. Anche se la vita di una persona è un terreno pieno di spine ed erbacce, c’è sempre uno spazio in cui il seme buono può crescere. Bisogna fidarsi di Dio».

Il discernimento

Dopo il dialogo, il discernimento che già il Papa ha indicato come fondamentale nella ricerca di Dio. «Il discernimento – riflette il Papa nell’intervista a Civiltà Cattolica – è una delle cose che più ha lavorato interiormente sant’Ignazio. Per lui è uno strumento di lotta per conoscere meglio il Signore e seguirlo più da vicino. Mi ha sempre colpito una massima con la quale viene descritta la visione di Ignazio: Non coerceri a maximo, sed contineri a minimo divinum est. Ho molto riflettuto su questa frase in ordine al governo, ad essere superiore: non essere ristretti dallo spazio più grande, ma essere in grado di stare nello spazio più ristretto. Questa virtù del grande e del piccolo è la magnanimità, che dalla posizione in cui siamo ci fa guardare sempre l’orizzonte. È fare le cose piccole di ogni giorno con un cuore grande e aperto a Dio e agli altri. È valorizzare le cose piccole all’interno di grandi orizzonti, quelli del Regno di Dio». «Questa massima offre i parametri per assumere una posizione corretta per il discernimento, per sentire le cose di Dio a partire dal suo “punto di vista”. Per sant’Ignazio i grandi princìpi devono essere incarnati nelle circostanze di luogo, di tempo e di persone. A suo modo Giovanni XXIII si mise in questa posizione di governo quando ripeté la massima Omnia videre, multa dissimulare, pauca corrigere, perché, pur vedendo omnia, la dimensione massima, riteneva di agire su pauca, su una dimensione minima. Si possono avere grandi progetti e realizzarli agendo su poche minime cose. O si possono usare mezzi deboli che risultano più efficaci di quelli forti, come dice anche san Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi».
«Questo discernimento richiede tempo. Molti, ad esempio, pensano che i cambiamenti e le riforme possano avvenire in breve tempo. Io credo che ci sia sempre bisogno di tempo per porre le basi di un cambiamento vero, efficace. E questo è il tempo del discernimento. E a volte il discernimento invece sprona a fare subito quel che invece inizialmente si pensa di fare dopo. È ciò che è accaduto anche a me in questi mesi. Il discernimento si realizza sempre alla presenza del Signore, guardando i segni, ascoltando le cose che accadono, il sentire della gente, specialmente i poveri. Le mie scelte, anche quelle legate alla normalità della vita, come l’usare una macchina modesta, sono legate a un discernimento spirituale che risponde a una esigenza che nasce dalle cose, dalla gente, dalla lettura dei segni dei tempi. Il discernimento nel Signore mi guida nel mio modo di governare». «Ecco, invece diffido delle decisioni prese in maniera improvvisa. Diffido sempre della prima decisione, cioè della prima cosa che mi viene in mente di fare se devo prendere una decisione. In genere è la cosa sbagliata. Devo attendere, valutare interiormente, prendendo il tempo necessario. La sapienza del discernimento riscatta la necessaria ambiguità della vita e fa trovare i mezzi più opportuni, che non sempre si identificano con ciò che sembra grande o forte».

La frontiera

Il terzo fondamento della cultura di Francesco è la frontiera, anche di questa Francesco ne parla nell’intervista a Civiltà Cattolica. “Quando insisto sulla frontiera, in maniera particolare mi riferisco alla necessità per l’uomo che fa cultura di essere inserito nel contesto nel quale opera e sul quale riflette. C’è sempre in agguato il pericolo di vivere in un laboratorio. La nostra non è una fede-laboratorio, ma una fede-cammino, una fede storica. Dio si è rivelato come storia, non come un compendio di verità astratte. Io temo i laboratori perché nel laboratorio si prendono i problemi e li si portano a casa propria per addomesticarli, per verniciarli, fuori dal loro contesto. Non bisogna portarsi la frontiera a casa, ma vivere in frontiera ed essere audaci».

Padre Spadaro che lo intervista chiede al Papa se può fare qualche esempio sulla base della sua esperienza personale. «Quando si parla di problemi sociali, -risponde Bergoglio – una cosa è riunirsi per studiare il problema della droga in una villa miseria, e un’altra cosa è andare lì, viverci e capire il problema dall’interno e studiarlo. C’è una lettera geniale del padre Arrupe ai Centros de Investigación y Acción Social (CIAS) sulla povertà, nella quale dice chiaramente che non si può parlare di povertà se non la si sperimenta con una inserzione diretta nei luoghi nei quali la si vive. Questa parola “inserzione” è pericolosa perché alcuni religiosi l’hanno presa come una moda, e sono accaduti dei disastri per mancanza di discernimento. Ma è davvero importante».

«E le frontiere sono tante. Pensiamo alle suore che vivono negli ospedali: loro vivono nelle frontiere. Io sono vivo grazie a una di loro. Quando ho avuto il problema al polmone in ospedale, il medico mi diede penicillina e strectomicina in certe dosi. La suora che stava in corsia le triplicò perché aveva fiuto, sapeva cosa fare, perché stava con i malati tutto il giorno. Il medico, che era davvero bravo, viveva nel suo laboratorio, la suora viveva nella frontiera e dialogava con la frontiera tutti i giorni. Addomesticare le frontiere significa limitarsi a parlare da una posizione distante, chiudersi nei laboratori. Sono cose utili, ma la riflessione per noi deve sempre partire dall’esperienza».

La visione della Chiesa di Papa Francesco.
«L’immagine della Chiesa che mi piace – dice il Papa nell’intervista a Civiltà cattolica – è quella del santo popolo fedele di Dio. È la definizione che uso spesso, ed è poi quella della Lumen gentium al numero 12. L’appartenenza a un popolo ha un forte valore teologico: Dio nella storia della salvezza ha salvato un popolo. Non c’è identità piena senza appartenenza a un popolo. Nessuno si salva da solo, come individuo isolato, ma Dio ci attrae considerando la complessa trama di relazioni interpersonali che si realizzano nella comunità umana. Dio entra in questa dinamica popolare ».
«Il popolo è soggetto. E la Chiesa è il popolo di Dio in cammino nella storia, con gioie e dolori. Sentire cum Ecclesia dunque per me è essere in questo popolo. E l’insieme dei fedeli è infallibile nel credere, e manifesta questa sua infallibilitas in credendo mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo che cammina. Ecco, questo io intendo oggi come il “sentire con la Chiesa” di cui parla sant’Ignazio. Quando il dialogo tra la gente e i Vescovi e il Papa va su questa strada ed è leale, allora è assistito dallo Spirito Santo. Non è dunque un sentire riferito ai teologi».

L’infallibilità di tutti i fedeli

«È come con Maria: se si vuol sapere chi è, si chiede ai teologi; se si vuol sapere come la si ama, bisogna chiederlo al popolo. A sua volta, Maria amò Gesù con cuore di popolo, come leggiamo nel Magnificat. Non bisogna dunque neanche pensare che la comprensione del “sentire con la Chiesa” sia legata solamente al sentire con la sua parte gerarchica». E il Papa, dopo un momento di pausa, precisa in maniera secca, per evitare fraintendimenti: «E, ovviamente, bisogna star bene attenti a non pensare che questa infallibilitas di tutti i fedeli di cui sto parlando alla luce del Concilio sia una forma di populismo. No: è l’esperienza della “santa madre Chiesa gerarchica”, come la chiamava sant’Ignazio, della Chiesa come popolo di Dio, pastori e popolo insieme. La Chiesa è la totalità del popolo di Dio». «Io vedo la santità nel popolo di Dio, la sua santità quotidiana. C’è una “classe media della santità” di cui tutti possiamo far parte,(…) Io vedo la santità — prosegue il Papa — nel popolo di Dio paziente: una donna che fa crescere i figli, un uomo che lavora per portare a casa il pane, gli ammalati, i preti anziani che hanno tante ferite ma che hanno il sorriso perché hanno servito il Signore, le suore che lavorano tanto e che vivono una santità nascosta. Questa per me è la santità comune. La santità io la associo spesso alla pazienza: non solo la pazienza (…) del farsi carico degli avvenimenti e delle circostanze della vita, ma anche come costanza nell’andare avanti, giorno per giorno. Questa è la santità della Iglesia militante di cui parla anche sant’Ignazio. Questa è stata la santità dei miei genitori (…) Questa Chiesa con la quale dobbiamo “sentire” è la casa di tutti, non una piccola cappella che può contenere solo un gruppetto di persone selezionate. Non dobbiamo ridurre il seno della Chiesa universale a un nido protettore della nostra mediocrità. E la Chiesa è Madre — prosegue —. La Chiesa è feconda, deve esserlo. Vedi, quando io mi accorgo di comportamenti negativi di ministri della Chiesa o di consacrati o consacrate, la prima cosa che mi viene in mente è: “ecco uno scapolone”, o “ecco una zitella”. Non sono né padri, né madri. Non sono stati capaci di dare vita. Invece, per esempio, quando leggo la vita dei missionari salesiani che sono andati in Patagonia, leggo una storia di vita, di fecondità».
Chiese giovani e chiese di antica tradizione
Papa Francesco affronta anche il tema del rapporto fra chiese giovani e chiese che hanno una antica tradizione.
«Le Chiese giovani sviluppano una sintesi di fede, cultura e vita in divenire, e dunque diversa da quella sviluppata dalle Chiese più antiche. Per me, il rapporto tra le Chiese di più antica istituzione e quelle più recenti è simile al rapporto tra giovani e anziani in una società: costruiscono il futuro, ma gli uni con la loro forza e gli altri con la loro saggezza. Si corrono sempre dei rischi, ovviamente; le Chiese più giovani rischiano di sentirsi autosufficienti, quelle più antiche rischiano di voler imporre alle più giovani i loro modelli culturali. Ma il futuro si costruisce insieme».

La Chiesa come ospedale da campo

Cosa deve fare oggi in particolare la Chiesa davanti ai problemi che ogni giorno pone la società odierna? «Io vedo con chiarezza — osserva il Papa — che la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità. Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. È inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto. Curare le ferite, curare le ferite… E bisogna cominciare dal basso».

«Come stiamo trattando il popolo di Dio? Sogno una Chiesa Madre e Pastora. I ministri della Chiesa devono essere misericordiosi, farsi carico delle persone, accompagnandole come il buon samaritano che lava, pulisce, solleva il suo prossimo. Questo è Vangelo puro. Dio è più grande del peccato. Le riforme organizzative e strutturali sono secondarie, cioè vengono dopo. La prima riforma deve essere quella dell’atteggiamento. I ministri del Vangelo devono essere persone capaci di riscaldare il cuore delle persone, di camminare nella notte con loro, di saper dialogare e anche di scendere nella loro notte, nel loro buio senza perdersi. Il popolo di Dio vuole pastori e non funzionari o chierici di Stato. I Vescovi, particolarmente, devono essere uomini capaci di sostenere con pazienza i passi di Dio nel suo popolo in modo che nessuno rimanga indietro, ma anche per accompagnare il gregge che ha il fiuto per trovare nuove strade». «Invece di essere solo una Chiesa che accoglie e che riceve tenendo le porte aperte, cerchiamo pure di essere una Chiesa che trova nuove strade, che è capace di uscire da se stessa e andare verso chi non la frequenta, chi se n’è andato o è indifferente. Chi se n’è andato, a volte lo ha fatto per ragioni che, se ben comprese e valutate, possono portare a un ritorno. Ma ci vuole audacia, coraggio».
La corte è la lebbra del papato
Nell’intervista a Repubblica dell’1 ottobre Francesco dice: “I Capi della Chiesa spesso sono stati narcisi, lusingati e malamente eccitati dai loro cortigiani. La corte è la lebbra del papato».
Eugenio Scalfari che lo intervista rimane colpito da questa espressione e chiede: La lebbra del papato, ha detto esattamente così. Ma qual è la corte? Allude forse alla Curia?
«No, in Curia ci sono talvolta dei cortigiani, ma la Curia nel suo complesso è un’altra cosa. È quella che negli eserciti si chiama l’intendenza, gestisce i servizi che servono alla Santa Sede. Però ha un difetto: è Vaticano-centrica. Vede e cura gli interessi del Vaticano, che sono ancora, in gran parte, interessi temporali. Questa visione Vaticano-centrica trascura il mondo che ci circonda. Non condivido questa visione e farò di tutto per cambiarla. La Chiesa è o deve tornare ad essere una comunità del popolo di Dio e i presbiteri, i parroci, i Vescovi con cura d’anime, sono al servizio del popolo di Dio. La Chiesa è questo, una parola non a caso diversa dalla Santa Sede che ha una sua funzione importante ma è al servizio della Chiesa. Io non avrei potuto avere la piena fede in Dio e nel suo Figlio se non mi fossi formato nella Chiesa e ho avuto la fortuna di trovarmi, in Argentina, in una comunità senza la quale non avrei preso coscienza di me e della mia fede».
A proposito della Curia, osserva Kung nell’articolo già citato: “Il Papa ha usato parole molto dure, parole che non mi aspettavo, parole che persino a me avrebbero causato estremo disagio se le avessi usate: “La Corte è la lebbra del Papato”. In quel momento del loro dialogo, Francesco e Scalfari hanno davvero colto il punto essenziale, cioè che la Curia romana deve essere posta di nuovo al servizio del genere umano e non al servizio di un sistema romano che non ha nulla a che vedere con la lezione del Vangelo. E che da un punto di vista veramente cattolico il Vaticano non può divenire la necessità suprema, ma al contrario tutte le strutture della Chiesa, anche quelle della Curia, devono porsi al servizio del Popolo di Dio”.

Spogliarsi dello spirito di mondanità

«Il cristiano – ha affermato il Papa il 4 ottobre ad Assisi mentre visitava la stanza della spoliazione dove San Francesco si denudò rinunciando a tutto per mettersi dalla parte dei poveri, – deve spogliarsi oggi di un pericolo gravissimo che minaccia ogni persona nella Chiesa, il pericolo della mondanità. Il cristiano non può convivere con lo spirito del mondo, la mondanità che ci porta alla vanità, alla prepotenza, all’orgoglio. E questo è un idolo, non è Dio. L’idolatria è il peccato più forte. Quando i media parlano della Chiesa, credono che la Chiesa sono i preti, le suore, i vescovi, i cardinali e il Papa. La Chiesa siamo tutti noi e tutti noi dobbiamo spogliarci di questa mondanità, di questo spirito contrario a quello delle beatitudini, contrario a quello di Gesù. La mondanità ci fa male. È tanto triste trovare un cristiano mondano, sicuro di quella sicurezza che gli dà la fede e che gli dà il mondo. Non si può lavorare dalle due parti. La Chiesa, tutti noi, dobbiamo spogliarsi dalla mondanità. Gesù stesso diceva: non si può servire a due padroni, o servi a Dio o servi al denaro».
Spogliarsi dello spirito di mondanità è il forte messaggio che Papa Francesco lancia alla Chiesa. Un esempio concreto? Il 10 settembre, in visita al centro Astalli di Roma il Papa si è messo in fila alla mensa per parlare con i rifugiati che ogni giorno, in 400, entrano nel seminterrato gestito dai gesuiti per avere un pasto caldo. Lì, ha detto rivolto ai religiosi ed alle religiose: “I conventi vuoti non servono alla Chiesa per trasformarli in alberghi e guadagnare i soldi. I conventi vuoti non sono nostri, sono per la carne di Cristo che sono i rifugiati. Il Signore ci chiama a vivere con generosità e coraggio l’accoglienza nei conventi vuoti”.
Non sono discorsi teorici. Ce lo ricorda don Gaetano Saracino, parroco missionario degli Scalabrini nella chiesa del Santissimo Redentore a Val Melaina, periferia nord-est di Roma che è stato dal 2003 al 2008 con il volontariato internazionale in Bolivia, Perù, Ecuador ed anche a Buenos Aires per un periodo. Allora la fama del cardinale Bergoglio era già conosciuta. Un cardinale che si comportava in maniera semplice. Una persona fuori dalle righe capace di mettersi alla pari con chiunque.
“Dopo il peronismo, – racconta don Saracino – padre Jorge era il Superiore Provinciale dei Gesuiti, la gente aveva fame e allora cosa fa? Mette mano ai beni ecclesiastici e li vende per trasformarli in minestre per i poveri. Nel suo episcopato questo “gestis verbisque” ovvero i gesti e le parole, si traduce in termini ricorrenti come ” periferie, andate, i poveri”. Attenzione “opzione fondamentale per i poveri” sono le parole esplicite del suo ministero, invita tutti ad andare nelle periferie e lui lo fa in prima persona. Ecco i gesti delle visite e delle celebrazioni nelle favelas. Ha una grande importanza per noi il fatto che un vescovo trasferisca la chiesa, la parrocchia, la scuola nei barrios argentini mandandoci un gruppo di preti creati a posta per questa missione. Se non bastasse trasferisce quelle che sono le liturgie per la settimana Santa in questi quartieri e il giovedì Santo la lavanda dei piedi è a queste persone (…). Papa Francesco era un cardinale che prendeva la metropolitana e che forse non immaginava che la prossima sua fermata sarebbe stata a San Pietro. Una persona che si muoveva con semplicità all’interno di tutto e la gente malgrado fosse un porporato lo ha sempre chiamato padre Jorge come uno di famiglia e credo che la semplicità con cui ha parlato dimostra questo. Ci vedo segni eloquenti ma non ingenui, dietro c’è una rettitudine teologica tipica dei Gesuiti e dal primo discorso ci sono due e tre cose che lo fanno capire: chiede la benedizione al popolo ma è teologicamente corretto dire pregate voi Dio perché è lui che mi benedice. Quindi inginocchiarsi davanti al popolo diventa un gesto che tutti capiscono ed è il gesto della lavanda dei piedi che in qualche modo lui ha già anticipato. Poi si capisce che il primato della Chiesa di Roma è nella Carità e non nella giurisdizione, infatti accanto a sé vuole il Vicario di Roma e non il segretario di Stato. E ciò fa pensare che il suo non sarà un pontificato diciamo “statale” o “diplomatico” ma Pastorale. Ha riusato la parola popolo fuori dalla liturgia quando non viene usata neanche più dalle istituzioni.

La sinodalità

Il tema della corresponsabilità nella Chiesa, della sinodalità. Il Papa ne parla nella intervista a Civiltà Cattolica:
«Si deve camminare insieme: la gente, i Vescovi e il Papa. La sinodalità va vissuta a vari livelli. Forse è il tempo di mutare la metodologia del Sinodo, perché quella attuale mi sembra statica. Questo potrà anche avere valore ecumenico, specialmente con i nostri fratelli Ortodossi. Da loro si può imparare di più sul senso della collegialità episcopale e sulla tradizione della sinodalità. Lo sforzo di riflessione comune, guardando a come si governava la Chiesa nei primi secoli, prima della rottura tra Oriente e Occidente, darà frutti a suo tempo. Nelle relazioni ecumeniche questo è importante: non solo conoscersi meglio, ma anche riconoscere ciò che lo Spirito ha seminato negli altri come un dono anche per noi. Voglio proseguire la riflessione su come esercitare il primato petrino, già iniziata nel 2007 dalla Commissione Mista, e che ha portato alla firma del Documento di Ravenna. Bisogna continuare su questa strada». Padre Spadaro che lo intervista per Civiltà Cattolica cerca di capire come il Papa veda il futuro dell’unità della Chiesa. Francesco risponde: «dobbiamo camminare uniti nelle differenze: non c’è altra strada per unirci. Questa è la strada di Gesù».

La donna nella Chiesa

Infine il tema della donna nella Chiesa. Che ne pensa Francesco? Osserva padre Spadaro: “Il Papa ha più volte fatto riferimento a questo tema in varie occasioni. In una intervista aveva affermato che la presenza femminile nella Chiesa non è emersa più di tanto, perché la tentazione del maschilismo non ha lasciato spazio per rendere visibile il ruolo che spetta alle donne nella comunità. Ha ripreso la questione durante il viaggio di ritorno da Rio de Janeiro affermando che non è stata fatta ancora una profonda teologia della donna. E allora padre Spadaro chiede:: «Quale deve essere il ruolo della donna nella Chiesa? Come fare per renderlo oggi più visibile?». «È necessario ampliare gli spazi di una presenza femminile più incisiva nella Chiesa. Temo la soluzione del “machismo in gonnella”, perché in realtà la donna ha una struttura differente dall’uomo. E invece i discorsi che sento sul ruolo della donna sono spesso ispirati proprio da una ideologia machista. Le donne stanno ponendo domande profonde che vanno affrontate. La Chiesa non può essere se stessa senza la donna e il suo ruolo. La donna per la Chiesa è imprescindibile. Maria, una donna, è più importante dei Vescovi. Dico questo perché non bisogna confondere la funzione con la dignità. Bisogna dunque approfondire meglio la figura della donna nella Chiesa. Bisogna lavorare di più per fare una profonda teologia della donna. Solo compiendo questo passaggio si potrà riflettere meglio sulla funzione della donna all’interno della Chiesa. Il genio femminile è necessario nei luoghi in cui si prendono le decisioni importanti. La sfida oggi è proprio questa: riflettere sul posto specifico della donna anche proprio lì dove si esercita l’autorità nei vari ambiti della Chiesa».

La visione del mondo e i problemi della gente

A Lampadusa l’8 luglio 2013 Papa Francesco parla di “globalizzazione dell’indifferenza”. La cultura del benessere, dice, ci rende “insensibili alle grida degli altri”, ci fa vivere “in bolle di sapone”, in una situazione “che porta all’indifferenza verso gli altri. Di più: oggi c’è una “globalizzazione dell’indifferenza”. Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro!”. Non sono affare nostro le guerre finché non ci toccano direttamente, non sono affare nostro le migrazioni finché non investono casa nostra, non sono affare nostro le carestie, non è affare nostro la fame di milioni di persone, non è affare nostro la disoccupazione dei giovani, l’abbandono dei vecchi….
I mali più gravi: la disoccupazione dei giovani e la solitudine dei vecchi
“I più gravi dei mali che affliggono il mondo in questi anni sono la disoccupazione dei giovani e la solitudine in cui vengono lasciati i vecchi. – è uno dei passaggi dell’intervista concessa ad Eugenio Scalfari e pubblicata su Repubblica dell’1 ottobre – I vecchi hanno bisogno di cure e di compagnia; i giovani di lavoro e di speranza, ma non hanno né l’uno né l’altra, e il guaio è che non li cercano più. Sono stati schiacciati sul presente. Mi dica lei: si può vivere schiacciati sul presente? Senza memoria del passato e senza il desiderio di proiettarsi nel futuro costruendo un progetto, un avvenire, una famiglia? È possibile continuare così? Questo, secondo me, è il problema più urgente che la Chiesa ha di fronte a sé”.
Santità, risponde Scalfari, è un problema soprattutto politico ed economico, riguarda gli Stati, i governi, i partiti, le associazioni sindacali.
«Certo, lei ha ragione, ma riguarda anche la Chiesa, anzi soprattutto la Chiesa perché questa situazione non ferisce solo i corpi ma anche le anime. La Chiesa deve sentirsi responsabile sia delle anime sia dei corpi».
Santità, – incalza ancora Scalfari – Lei dice che la Chiesa deve sentirsi responsabile. Debbo dedurne che la Chiesa non è consapevole di questo problema e che Lei la incita in questa direzione?
«In larga misura quella consapevolezza c’è, ma non abbastanza. Io desidero che lo sia di più. Non è questo il solo problema che abbiamo di fronte ma è il più urgente e il più drammatico».

Sconfiggere la globalizzazione dell’indifferenza

E per sconfiggere la globalizzazione dell’indifferenza quando si prospetta un intervento armato dell’USA in Siria il Papa convoca una veglia di preghiera e invoca l’arma del digiuno. Quando a Lampedusa il 3 ottobre avviene la più grande strage di immigrati che fosse mai accaduta nei mari d’Italia, il Papa grida “vergogna”. E il giorno dopo ad Assisi parla di “questo mondo selvaggio che non dà lavoro, che non aiuta, a cui non importa se ci sono bambini che muoiono di fame, a cui non importa se tante famiglie non hanno da mangiare, non hanno la dignità di portare pane a casa, non importa se tanta gente deve fuggire dalla schiavitù e dalla fame. E fuggire cercando la libertà, e con quanto orrore tante volte vediamo che trovano la morte, come è successo ieri a Lampedusa”.

I nodi della vita moderna: divorzio, aborto, contraccettivi, omosessualità

Rispetto ai nodi della vita moderna – gli omossessuali, i divorziati, aborto, contraccettivi – il Papa invoca la misericordia.
«Dobbiamo annunciare il Vangelo su ogni strada, predicando la buona notizia del Regno e curando, anche con la nostra predicazione, ogni tipo di malattia e di ferita. A Buenos Aires ricevevo lettere di persone omosessuali, che sono “feriti sociali” perché mi dicono che sentono come la Chiesa li abbia sempre condannati. Ma la Chiesa non vuole fare questo. Durante il volo di ritorno da Rio de Janeiro ho detto che, se una persona omosessuale è di buona volontà ed è in cerca di Dio, io non sono nessuno per giudicarla. Dicendo questo io ho detto quel che dice il Catechismo. La religione ha il diritto di esprimere la propria opinione a servizio della gente, ma Dio nella creazione ci ha resi liberi: l’ingerenza spirituale nella vita personale non è possibile. Una volta una persona, in maniera provocatoria, mi chiese se approvavo l’omosessualità. Io allora le risposi con un’altra domanda: “Dimmi: Dio, quando guarda a una persona omosessuale, ne approva l’esistenza con affetto o la respinge condannandola?”. Bisogna sempre considerare la persona. Qui entriamo nel mistero dell’uomo. Nella vita Dio accompagna le persone, e noi dobbiamo accompagnarle a partire dalla loro condizione. Bisogna accompagnare con misericordia. Quando questo accade, lo Spirito Santo ispira il sacerdote a dire la cosa più giusta». «Questa è anche la grandezza della Confessione: il fatto di valutare caso per caso, e di poter discernere qual è la cosa migliore da fare per una persona che cerca Dio e la sua grazia. Il confessionale non è una sala di tortura, ma il luogo della misericordia nel quale il Signore ci stimola a fare meglio che possiamo. Penso anche alla situazione di una donna che ha avuto alle spalle un matrimonio fallito nel quale ha pure abortito. Poi questa donna si è risposata e adesso è serena con cinque figli. L’aborto le pesa enormemente ed è sinceramente pentita. Vorrebbe andare avanti nella vita cristiana. Che cosa fa il confessore?».

Concentrarsi sull’essenziale: annunciare la salvezza

«Non possiamo insistere solo sulle questioni legate ad aborto, matrimonio omosessuale e uso dei metodi contraccettivi. Questo non è possibile. Io non ho parlato molto di queste cose, e questo mi è stato rimproverato. Ma quando se ne parla, bisogna parlarne in un contesto. Il parere della Chiesa, del resto, lo si conosce, e io sono figlio della Chiesa, ma non è necessario parlarne in continuazione». «Gli insegnamenti, tanto dogmatici quanto morali, non sono tutti equivalenti. Una pastorale missionaria non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine da imporre con insistenza. L’annuncio di tipo missionario si concentra sull’essenziale, sul necessario, che è anche ciò che appassiona e attira di più, ciò che fa ardere il cuore, come ai discepoli di Emmaus. Dobbiamo quindi trovare un nuovo equilibrio, altrimenti anche l’edificio morale della Chiesa rischia di cadere come un castello di carte, di perdere la freschezza e il profumo del Vangelo. La proposta evangelica deve essere più semplice, profonda, irradiante. È da questa proposta che poi vengono le conseguenze morali».

«Dico questo anche pensando alla predicazione e ai contenuti della nostra predicazione. Una bella omelia, una vera omelia, deve cominciare con il primo annuncio, con l’annuncio della salvezza. Non c’è niente di più solido, profondo e sicuro di questo annuncio. Poi si deve fare una catechesi. Infine si può tirare anche una conseguenza morale. Ma l’annuncio dell’amore salvifico di Dio è previo all’obbligazione morale e religiosa. Oggi a volte sembra che prevalga l’ordine inverso. L’omelia è la pietra di paragone per calibrare la vicinanza e la capacità di incontro di un pastore con il suo popolo, perché chi predica deve riconoscere il cuore della sua comunità per cercare dove è vivo e ardente il desiderio di Dio. Il messaggio evangelico non può essere ridotto dunque ad alcuni suoi aspetti che, seppure importanti, da soli non manifestano il cuore dell’insegnamento di Gesù».

Dove si incontra Dio?

«C’è la tentazione di cercare Dio nel passato o nei futuribili. Dio è certamente nel passato, perché è nelle impronte che ha lasciato. Ed è anche nel futuro come promessa. Ma il Dio “concreto”, diciamo così, è oggi. Per questo le lamentele mai mai ci aiutano a trovare Dio. Le lamentele di oggi su come va il mondo “barbaro” finiscono a volte per far nascere dentro la Chiesa desideri di ordine inteso come pura conservazione, difesa. No: Dio va incontrato nell’oggi».

«Dio si manifesta in una rivelazione storica, nel tempo. Il tempo inizia i processi, lo spazio li cristallizza. Dio si trova nel tempo, nei processi in corso. (…) E richiede pazienza, attesa». «Quando desideriamo incontrare Dio, vorremmo constatarlo subito con metodo empirico. Così non si incontra Dio. Lo si incontra nella brezza leggera avvertita da Elia. I sensi che constatano Dio sono quelli che sant’Ignazio chiama i “sensi spirituali”. Ignazio chiede di aprire la sensibilità spirituale per incontrare Dio al di là di un approccio puramente empirico. È necessario un atteggiamento contemplativo: è il sentire che si va per il buon cammino della comprensione e dell’affetto nei confronti delle cose e delle situazioni. Il segno che si è in questo buon cammino è quello della pace profonda, della consolazione spirituale, dell’amore di Dio, e di vedere tutte le cose in Dio».

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